Morano Margherita

Morano Margherita

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Margherita Morano, moglie del defunto Antonio Barbero è socia ed attiva sostenitrice di ALCASE Italia. Dal 2004 al 2007 è stata anche Presidente di ALCASE Italia, ora Presidente emerita di ALCASE.

L’impatto con la malattia di mio marito, nel giugno 1999, fu sconvolgente. Un pugno allo stomaco, inaspettato. Tanto più che io stessa ero reduce da una brutta operazione di cancro dell’utero, e ancora aspettavo gli esiti istologici. Ancora non sapevo, quindi, se fosse benigno o maligno (alla fine benigno).

Da due anni mio marito, Antonio Barbero, si trascinava una brutta tosse, che il medico di base curava pensando si trattasse di bronchite asmatica cronica. Lui peggiorava, e alla tosse subentrò la febbre. Allora il medico di famiglia richiese una TAC, poi una broncoscopia. Fatto questo secondo esame, volli conoscere dal medico ospedaliero la diagnosi. Senza alcun riguardo nei miei confronti, con molta freddezza e durezza disse soltanto: “Signora, suo marito ha un cancro del polmone, e non è più operabile”. Punto. Rimasi impietrita. Mi venne un nodo alla gola tale che non riuscii ad obiettare qualcosa, a dire anche solo un “ma…”. Le gambe si misero a tremare, a momenti svenni. Sulle mie guance paffute scesero due lacrime, una per parte. Poi pensai che fuori c’era mio marito e non poteva vedermi piangere, altrimenti avrebbe capito la gravità della situazione. Così, sforzandomi di essere il più possibile imperturbabile, andai a prenotare il ricovero: erano comunque necessari ulteriori accertamenti. Sulle prime sperai che la diagnosi fosse sbagliata. Purtroppo era giusta: il carcinoma, localizzato al polmone sinistro, era uno dei più mortali.

Avrei di gran lunga preferito che il cancro avesse colpito un’altra volta me, non lui. Non il mio primo unico grande amore. Antonio era tutto per me, era la mia vita. Quando ci sposammo, avevo sedici anni. Ero orfana di entrambi i genitori, ultima di otto tra fratelli e sorelle, e avevo sofferto tanto. Grazie a lui avevo colmato quella perdita incommensurabile. Anche per questo lo chiamavo “papino”. Da quando la nostra unica figlia, Antonella, si era sposata e fatta una famiglia, facevamo la vita degli sposini. Io avevo (e ho tuttora) un negozio da parrucchiera. Lui faceva il draghista. Fumava un pacchetto di sigarette al giorno. Ero già stata operata quattro volte di varie forme tumorali, per fortuna sempre benigne. Mio marito diceva sempre che, qualora si fosse ammalato di un cancro maligno, l’avrebbe fatta finita. Dovevo allora fare in modo che non sapesse nulla. Ma non scelsi solo l’omertà: scelsi anche la lotta. Cercavo di tenere alto l’umore di mio marito mostrandomi sempre allegra, positiva, ottimista. Non volevo che perdesse la speranza. Poi, quand’ero sola, mi sfogavo con dei gran pianti, e imploravo Dio perché gli concedesse la grazia della guarigione. Sono molto credente: in quel periodo avevo una guida spirituale, Padre Giò, all’epoca cappellano dell’ospedale Carle di Cuneo. In certi momenti ero veramente distrutta, temevo di non farcela più a reggere il gioco: dovevo fare forza a lui, a me, e intanto occuparmi del negozio. Capitava che le clienti mi chiedessero: “È vero che tuo marito ha un male incurabile?”. Con Antonio che stava nel retrobottega e sentiva tutto, negavo categoricamente: “Non è vero niente! – rispondevo – La gente è buona a farsi i fatti degli altri ma non i propri”. Qui non si tratta di illudersi o di illudere, di mentire o meno, ma di proteggere il malato, salvaguardare la sua privacy. Certe voci, quantunque fondate, possono abbatterlo più di quanto non sia già, ed è compito di tutti, dal medico ai famigliari all’ultimo dei conoscenti, scongiurare una cosa simile.

A capodanno, quello tanto atteso dell’ingresso nel nuovo millennio, viste le sue condizioni di salute decidemmo di rimanere a casa, noi due soli. Gli dissi: “Papino, è pur sempre la notte di San Silvestro: bisogna festeggiare!”. Preparai una buona cenetta, indossai lo stesso l’abito da sera, e allo scoccare della mezzanotte brindammo al nuovo anno con lo champagne nei calici. Avevo comprato la marca migliore. Girai anche un breve video, scattai alcune foto. Sapevo che presto se ne sarebbe andato, e volevo avere il ricordo tangibile che, fino all’ultimo, eravamo stati felici insieme.

Antonio era stato preso in cura da due medici eccezionali, i dottori Gianfranco Buccheri e Domenico Ferrigno. A differenza di quello della diagnosi, loro sì che sapevano (e sanno) trattare coi malati. Fecero il possibile e anche l’impossibile. Ma il male, ormai, era ad uno stadio troppo avanzato. Il 12 gennaio 2000, giocammo ancora la carta dell’intervento al San Martino di Genova. Quando gli aprirono il torace, il tumore era arrivato all’arteria polmonare, sicché rinunciarono ad asportare il polmone. Ci furono delle complicazioni: Antonio ebbe una grave emorragia polmonare. Passò cinque giorni in rianimazione intensiva. Andò vicinissimo a morire.

Invece, poté farlo come aveva sempre desiderato: a casa, circondato dalla famiglia, tra le sue cose. Il parroco venne a dargli l’estrema unzione, poi lui spirò. Era la sera del 1° maggio 2000.

L’indomani, c’era già gente in casa, venne a farmi visita una signora anziana. Mi si avvicinò e, porgendomi un mazzetto di mughetti, i fiori dell’amore, mi disse: “Margherita, lei ha sempre fatto tanto per me. Anche se ha chiesto opere di bene, io volevo lo stesso donarle un grande mazzo di fiori. Ma la mia pensione è poca cosa, e allora ho raccolto questi mughetti nel giardino della vicina di casa. Li tenga”. Mi commossi come non mai, una commozione intensa, di quelle che ti pervadono dalla testa ai piedi. Di mazzi di fiori ne arrivarono ugualmente una cinquantina: da parenti, amici, colleghi miei, persone che avevano conosciuto mio marito per lavoro. Perfino dai medici di Genova. Al funerale, i nipoti portarono la bara in spalla da casa fino al duomo di Fossano. Antonio era solito passeggiare e chiacchierare sotto i portici di via Roma: ci tenevo lo facesse un’ultima volta, prima di accomiatarsi dalla sua città. Alla funzione partecipò una folla che il duomo avrebbe dovuto essere quello di Milano per contenerla tutta. Mi sentivo stretta in un abbraccio immenso.

E un abbraccio ti tiene in piedi. Non potevo lasciarmi sopraffare dal dolore. Non volevo passare il resto dei miei giorni nei panni della vedova inconsolabile. Presto il dolore ha cominciato a convertirsi in reazione. Gliel’ho giurata, al cancro! Perché si è portato via mio marito. Perché ha colpito me ben quattro volte. Perché ha reso vedove anche due mie sorelle (un cognato è stato colpito pure lui al polmone, l’altro al fegato). Perché non ha risparmiato il fratello che mi fece da padre. E perché quando avevo due anni mi ha privata, del padre.

Per questo mi sono risposata: con ALCASE Italia. È l’unica associazione, nel nostro Paese, dedita esclusivamente alla lotta al cancro del polmone. Dal febbraio 2005 ne sono la presidente. Ho sempre fatto tanto volontariato: per gli anziani, per i disabili, per le ragazze madri, per i giovani finiti nella spirale della droga, per i poveri. Adesso, nel mio elenco personale figurano anche i pazienti affetti da cancro del polmone, vera e propria piaga su scala planetaria. Mi batto, ci battiamo noi di ALCASE, perché questi malati siano curati da medici capaci e preparati, in strutture altamente specializzate e confortevoli, dove il paziente sia considerato un essere umano sofferente e non un mero caso clinico. Ci spendiamo, noi di ALCASE, nel fare informazione e prevenzione a 360°, perché i soggetti considerati a rischio possano ricevere una diagnosi tempestiva, presupposto imprescindibile per cure efficaci: contro il Big Killer si può vincere solo giocando d’anticipo! Se mio marito si fosse presentato all’ospedale Carle con almeno tre mesi di anticipo, probabilmente ce l’avrebbe fatta.

Ma non è più tempo di rimpianti. La partita è ancora lunga, difficile. La vittoria, lontana. E, certo, non sarà la nostra generazione a conquistarla. Tuttavia, essa ha il dovere morale di porre basi solide per propiziarla a chi raccoglierà il testimone. Come? Cominciando col tenere accesa la fiamma della speranza. Le testimonianze che seguono vanno in questa direzione.

Margherita Morano

Presidente di ALCASE Italia

 

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