Favazzo Salvatore

Favazzo Salvatore

Favazzo Salvatore – Sono un miracolato, ma non un buon esempio

ima-favazzoNon mi capacitavo. Nessuno in famiglia si capacitava: mia moglie, i miei fratelli e sorelle, mia madre (che allora era ancora in vita). Siamo una famiglia numerosa e molto unita, emigrata dalla Sicilia alla fine degli anni ’60, adesso non ricordo bene se nel ’67 o nel ’68. Non ci capacitavamo che il Big Killer, come viene soprannominato il cancro del polmone, avesse aggredito uno come me, lavoratore instancabile, senza mai un problema di salute. Le persone sono portate a illudersi che malattie e incidenti riguardino sempre e solo gli altri. E quando vengono smentite, la tegola fa ancora più male.

Era l’estate 1997, andavo per i 53 anni e facevo il piastrellista come dipendente, dopo che per anni lo avevo fatto in proprio. Come tanti della mia generazione, avevo cominciato a lavorare in tenera età: a nove anni. Certo non per scelta, né per imposizione: per necessità. In quell’anno, dicevo, mi sentivo spesso stanco, affaticato, costretto a fermarmi di frequente per riprendere le forze (che duravano poco, o tornavano solo in parte). Inoltre, avevo notato un rigonfiamento delle ghiandole del collo, che mi procurava una sgradevole sensazione di secchezza (spero di aver reso l’idea).

Con molta preoccupazione, mi rivolsi al medico di famiglia, che senza perdere tempo richiese gli accertamenti più opportuni, segno che aveva subodorato qualcosa di grave. Infatti: non più di un mese e mezzo dopo i primi sintomi, mi fu diagnosticato un cancro del polmone. Gli esami avevano riscontrato una macchia al polmone destro. Ero in pericolo di vita, inutile girarci intorno. In un primo momento i miei famigliari non mi dissero di cosa si trattava esattamente. Ma, in un modo o nell’altro, ero riuscito ad intuirlo. La mia opinione è che ad un paziente affetto da cancro del polmone (già il nome mette i brividi) non giovi affatto conoscere la verità. C’è il rischio che non reagisca in modo positivo, e si lasci andare quando invece è importante combattere con ottimismo. Lo so, è facile parlare quando non ci sei dentro o ne sei uscito. Ma più che di circostanza, preferisco considerarle obbligate queste parole, perché obbligato è il percorso della malattia.

Fu la mia sorella maggiore a spiegarmi come stavano effettivamente le cose e a consigliarmi il da farsi. Il dottor Mazza, all’epoca primario della pneumologia presso l’ospedale Carle di Cuneo, le aveva detto che non avrei più potuto lavorare e perciò dovevo subito fare richiesta della pensione di invalidità. Seguii le istruzioni.

Nel periodo tra il ricovero e l’inizio delle terapie passai i momenti peggiori della mia vita. Ero fisicamente e moralmente abbattuto, avevo smesso di fare progetti.

Tra settembre e il gennaio ‘98, mi sottoposi a un duplice trattamento. Feci sei sedute (se non ricordo male) di chemioterapia al Carle, con cadenza settimanale; e trenta di radioterapia al Santa Croce, 3-4 volte a settimana. La radioterapia non mi dava alcun scompenso. Pativo invece la chemio, mi faceva sentire una larva. Quando esauriva il suo effetto stavo di nuovo abbastanza bene, ma una volta capito l’antifona, mi presentavo alla seduta successiva già avvilito. Ricordo che ogni seduta mi lasciava sempre un senso di nausea, nausea da odori, che avvertivo in particolare se passavo davanti a un bar o ad una panetteria. Cosa strana, non avevo perso appetito. Merito anche di mia moglie, che mi preparava piatti freschi e leggeri. Non mi era stata prescritta alcuna dieta particolare: uno mangia quello che si sente.

Le cure furono efficaci al punto da risparmiarmi l’intervento chirurgico. Poi le mie condizioni andarono progressivamente migliorando. Recuperai il mio peso forma, anche qualche chilo in più. Tornai a godermi il presente coltivando i miei hobby preferiti: la pesca, il giardinaggio e il gioco delle bocce. E tornai a proiettarmi nel futuro, progettando viaggi che sognavo da tempo e che poi ho fatto veramente: in Brasile e negli Stati Uniti, per citare i posti che più mi hanno affascinato e dove sono ritornato. Nei primi tempi, quando giustamente i medici ti marcano più stretto perché alto è il rischio di una ricaduta, facevo una broncoscopia o una radiografica toracica circa ogni tre mesi. Gli esiti erano sempre rassicuranti, e lo sono ancora adesso che faccio solo più controlli di routine.

Considero i medici che mi hanno curato dei veri angeli custodi, e me stesso un miracolato: al di là del lieto fine, in fondo la mia esperienza di malato è stata meno penosa di quella di tanti altri. Ma un miracolato non lo si può prendere come esempio. Spesso mi ritrovo a pensare alle possibili cause della mia malattia: sicuramente il vizio del fumo, contratto a 18 anni. Smisi quando mi diagnosticarono il tumore, e per un anno e mezzo non toccai una sigaretta. Ma poi ho ricominciato, sia pure meno assiduamente di un tempo: diciamo sette-otto sigarette al giorno, una decina nei giorni di festa, quando magari si fanno i pranzi o le cene coi parenti. Il mattino non fumo mai, ma lo dico così, a titolo di cronaca, certo non come attenuante. So di commettere un gravissimo errore, come se non avessi imparato nulla dall’esperienza. Come se volessi dileggiarla, l’esperienza. Ma trovo che la dipendenza dalla nicotina sia davvero difficile da vincere. Le ho già provate tutte: mi sono perfino rivolto a uno di quei cosiddetti esperti, specie di strizzacervelli. In realtà ti strizzano solo il portafoglio. È una questione di testa, non c’è dubbio. Evidentemente io non ce l’ho. Due miei fratelli ce l’hanno fatta a smettere. Li invidio, ma proprio non mi riesce di imitarli. L’importante è che gli altri non imitino me: di miracolati ce n’è uno su un milione.

Il commento del dott. Buccheri

Ancora una storia incredibile. Abbiamo rivisto nel febbraio di quest’anno il Sig. Favazzo, nel corso di una delle sue normali visite di controllo, che ormai hanno frequenza annuale. Continua a sentirsi bene e le sue condizioni generali sono sempre floride. Abbiamo concluso che egli è “libero da malattia”, almeno per quanto è possibile affermare sulla base dell’esame fisico, degli esami di laboratorio, del dosaggio dei marcatori tumorali, e della TAC del torace. Eppure, si dice – ed è sostanzialmente vero – che un paziente con un cancro non a piccole cellule del polmone, che non sia operabile perché troppo avanzato (il Sig. Favazzo aveva un grosso tumore che invadeva il mediastino ed i grossi vasi…) ha ben poche speranze di sopravvivere più di cinque anni alla diagnosi…E pensare che il Sig. Favazzo era stato trattato con una vecchia chemioterapia (come si usava nel ‘97) e non aveva ricevuto nessuna delle tante radioterapie conformazionali, accelerate, iperaccelerate o stereotassiche che oggi vanno di moda!…
Viene da pensare come sia proprio vero quello che gli antichi medici dicevano, mettendo in guardia da statistiche e generalizzazioni: “ogni persona malata è un individuo, unico ed irripetibile ed ogni tumore è anch’esso un evento a sé, unico ed irripetibile ..”

 

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