Einaudi Marco

Einaudi Marco

“A me ex postino, il big killer suonò due volte”

ima-einaudiSono della leva del ’32, nativo di San Damiano Macra, paese della media valle Maira, dove vivo tuttora. Il lavoro da postino, poi la pensione, goduta in maniera semplice: a me piace respirare l’aria di campagna, curare l’orto, coltivare quel po’ di terra, andar per funghi. Con mia moglie ho fatto anche qualche viaggio: Parigi, i castelli della Loira, Napoli e la costiera amalfitana. Il più lungo è stato ad Hong Kong, dove ho un fratello missionario.

A parte l’appendicite a 26 anni, ero sempre stato bene. Davvero, mai una malattia o qualcosa di serio. A 71 anni cominciai ad avere difficoltà nell’urinare: una cosa sì fastidiosa ma affatto preoccupante, normale per tanti uomini di una certa età. Mi avrebbero quindi operato di prostata: a marzo, marzo del 2003.

E invece quell’intervento ho ancora da farlo oggi. Successe che alcuni giorni dopo la visita, a febbraio, sempre dal S. Croce di Cuneo mi richiamarono per una TAC, alla quale avrei dovuto presentarmi a digiuno. Trovai la cosa un po’ strana, tuttavia non rimasi turbato (tra poco si capirà perché). Quando andai a ritirare gli esiti, senza preamboli o giri di parole mi dissero: “Signor Einaudi, niente più intervento alla prostata. Le abbiamo riscontrato un nodulo al polmone destro”. Non riuscivo a crederci: non avevo mai lamentato nemmeno uno dei sintomi tipici del cancro del polmone, che so, la tosse o il dolore al torace. Per tanti anni avevo fumato una dozzina di sigarette al giorno, cominciando intorno ai 15 anni e nei primi tempi facendolo di nascosto, perché mia madre non voleva. E mai lo facevo in presenza di mia moglie e di mio figlio, che non sono fumatori: rispettavo la legge Sirchia prima ancora che ci fosse.

Dunque, incredulo alla notizia che avevo un tumore polmonare, salii al piano di sopra, dove trovai ad attendermi il chirurgo, il dottor Vassallo. Appese la mia lastra al muro, la visionò, poi scrisse su di un biglietto: non operabile. Il nodulo era già troppo grosso. Ricordo benissimo che giorno era: un venerdì. Il lunedì andai all’ospedale Carle per cominciare la trafila degli esami del caso, per primi la spirometria e la broncoscopia. A un medico dissi che avrei fatto la fine di mio fratello: dieci anni di meno, dieci sigarette di più al giorno. Se n’era andato nel ’94 per lo stesso motivo per il quale ora mi trovavo al Carle. Lui sì che aveva sofferto. Ben due broncoscopie non avevano riscontrato nulla. Quando venne individuato, il tumore era ormai arrivato al cervello. Questo dissi a quel medico, e lui, perché non mi demoralizzassi: “Guardi che non siamo tutti uguali: ognuno fa storia a sé”.

Il primo specialista che incontrai fu il dottor Ferrigno, del day hospital pneumoncologico. Ci andai il 31 marzo. Mi spiegò tutto per filo e per segno: il mio era un carcinoma epidermoidale e avrei dovuto sottopormi a chemioterapia, preceduta però da un’altra TAC. “Si faccia animo”, concluse con un tono di sincera compassione. Scoppiai a piangere come un bambino. Ma uscito dall’ambulatorio presi coraggio, e in seguito lo avrei trasmesso ad altre persone nella mia situazione.

L’11 aprile cominciai la chemioterapia: una seduta a settimana. Gli effetti collaterali si manifestavano due o tre giorni dopo, ed erano vomito e stitichezza. Non avevo più un pelo, ero liscio come un poppante. Avevo perso peso, ma conservavo un po’ di appetito. Quando ti sottoponi a una terapia anticancro, perdi la libertà, perché la tua vita diventa rigorosamente programmata. Siccome i globuli scarseggiavano, ricevetti anche due trasfusioni. E mia moglie mi fece quattro iniezioni nella pancia, per stimolare il midollo osseo a produrre sangue. Ah, mia moglie! Il mio angelo custode, la mia forza. Sempre presente e sempre lucida, bravissima nel mantenere il controllo e quindi nel gestire la faccenda. Non ci fosse stata lei, non so se ce l’avrei fatta. Da parte mia ho sempre accettato con grande tranquillità tutto quello cui venivo sottoposto, convinto che fosse per il mio bene. La chemioterapia mi lasciava addosso una sorta di gusto cattivo, che impregnava tutto, perfino le lenzuola, e che sarebbe rimasto ancora due o tre mesi dopo la fine del trattamento.

Durante la chemio, avevo stretto amicizia con la signora Armando di Caraglio. In barba alla malattia, aveva grande voglia di vivere, era combattiva, ottimista. Mi diceva sempre: “Signor Einaudi, io e lei ce la faremo!”. Lavorava come cameriera, aveva famiglia. Finita la seduta, correva a lavorare. Poi mi cambiarono il ciclo e ci perdemmo di vista.

I cicli furono in totale 17. Completai il trattamento il 6 agosto. Il dottor Vassallo giudicò miracolosi i risultati. Ma fu il dottor Buccheri, l’altro medico del day hospital pneumoncologico del Carle, a comunicarmi che ero finalmente operabile. Avrei voluto abbracciarlo. A più riprese avevo spinto per l’intervento, ricevendo puntualmente il no categorico del dottor Vassallo: “Einaudi, l’intervento chirurgico non è qualcosa che si fa a cuor leggero!”. E infatti, sebbene fosse la volta buona, mi fecero ancora una seconda PET e un’altra broncoscopia. Entrai in sala operatoria il 21 agosto. Avevo trascorso la vigilia serenamente, cenando regolarmente. L’intervento fu una “lobectomia superiore destra”. Mi prelevarono anche 11 linfonodi indenni da malattia. Venni dimesso otto giorni dopo.

Tramite l’albergo dove lavorava, rintracciai la signora Armando per darle la bella notizia. Malgrado la contentezza per me, si rabbuiò: era ancora alle prese con la cura, non capiva come mai lei fosse rimasta indietro. Purtroppo non ce l’ha fatta.

Ma il mio calvario non era ancora finito. Un mese dopo l’operazione mi buscai la polmonite. Poi un’infezione alla gola: passai 15-20 giorni senza toccare cibo, l’ago della bilancia scese a 56 kg. Gli antibiotici mi avevano rovinato la flora batterica. Nella primavera 2005, ricordo era Pasqua, per colpa di un virus mi buscai una broncopolmonite con interessamento della pleura: ne ebbi per circa 25 giorni.
All’inizio del 2006 il dottor Ferrigno mi disse: “Prima di passare alle visite semestrali, per precauzione farei ancora una TAC”. Aveva ragione ad essere cauto: la TAC evidenziò una macchia nera sempre al polmone destro. Così il referto: non si esclude recidiva. Ero di nuovo col morale a terra. Inoltre, mi sentivo beffato: ero stato un postino, figura di cui, per via del titolo di un celebre film, si dice che suoni sempre due volte.

Il 6 aprile mi aprirono nuovamente per una resezione polmonare atipica. E atipica, per il secondo anno consecutivo, fu la mia Pasqua. A casa uno dei drenaggi fece infezione, presi male, i miei chiamarono l’ambulanza. Mi portarono al PS del S. Croce, poi mi ricoverarono. Non riuscivo a respirare, ansimavo. Vassallo decise che venissi trasferito al centro di riabilitazione di Caraglio. Là dimenticarono di somministrarmi degli antibiotici: fortuna che per guarire dall’infezione bastarono quelli che avevo preso al Santa Croce!

Tornato a casa, per alcuni mesi continuai a tribolare: ero fisicamente a pezzi, sempre stanco, faticavo a camminare, di salire le scale manco a parlarne, non me la sentivo di guidare la macchina. E poi faticavo a respirare, mi sembrava di soffocare, eppure per i medici di Caraglio non era niente!

Il mio respiro si è normalizzato un po’ alla volta, ho imparato a dosarlo: è grazie a questo se mi hanno ancora rinnovato la patente. Alla visita sono riuscito a dissimulare il problema. Sì: in quell’occasione sono stato un buon attore. Non ho invece dovuto simulare domenica 1° ottobre 2006. Quel giorno io e mia moglie abbiamo festeggiato 50 anni di matrimonio: nozze d’oro, un oro che il piombo delle mie vicissitudini di salute non è riuscito ad intaccare. Dopo la messa, con parenti e amici abbiamo pranzato alla “Locanda del Ristoro” qui a San Damiano Macra. Alla vigilia pensavo di non fermarmi a pranzo: dubitavo della mia tenuta fisica. E invece ho tenuto benissimo, riuscendo così a godermi un’indimenticabile giornata in compagnia. Credo me la meritassi.

 

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