Dutto Giuseppe

Dutto Giuseppe

Dutto Giuseppe – “Il morale sempre alto”

A parte due anni di apprendistato in segheria, di lavoro avevo sempre fatto il muratore. Da dipendente, non in proprio. Arrivato a 50 anni, potevo dire di essere sempre stato abbastanza bene. Ogni tanto quei mali passeggeri che colpiscono un po’ tutti, ma nel complesso non mi potevo lamentare. Poi, nel 1989, venni operato di due ernie al disco. L’intervento in sé era riuscito, e sarei anche guarito bene se solo avessi pazientato. Ma stare a casa colle mani in mano mi annoiava terribilmente, e così, dei previsti sei mesi di mutua ne feci soltanto due. Una decisione mia e soltanto mia. Il datore di lavoro non fece nessuna pressione perché bruciassi i tempi, e ci mancherebbe. Che volete farci: sono testardo e impaziente. Inevitabile che avrei pagato a caro prezzo questi due difetti. E il prezzo fu una terza ernia recidiva.

Presero a curarmela con il “Cronassial”, un farmaco che si assumeva in pastiglie o tramite iniezioni, in seguito messo fuori commercio. L’anno era il 1993, il mese maggio. La data dell’intervento era già stata fissata. Sennonché l’ultimo esame alla vigilia, una radiografia al torace, rivelò una piccola macchia nera al polmone sinistro. A questo punto l’intervento all’ernia non si faceva più, perché dovevano capire cos’era quella macchia nera. Non ci misero molto: cancro del polmone! Quando me lo comunicarono, rimasi senza parole, come imbambolato. Il chirurgo, il dottor Quaranta, mi garantì che, con l’operazione, le probabilità di debellare il tumore sarebbero state intorno al 90%. Ma io, che come ho già precisato sono un tipo testardo, di farmi operare subito non ne volevo sapere. Come avrei potuto, con moglie e figlia gravemente influenzate e il genero prossimo ad essere operato di ernia inguinale? La cosa curiosa è che io, il malato più grave, andavo a trovare loro! Appena mia moglie si ristabilì, mi consultai con lei e con il medico di famiglia, e mi convinsi. Anche perché il chirurgo era stato categorico: “Sappia che tra un anno non la opererò più perché sarà troppo tardi”. Testone sì, stupido no. Quel 90% di probabilità di successo mi rendeva fiducioso, il mio morale era sempre alto. Il 7 giugno 1993 (una data impossibile da dimenticare) entrai in sala operatoria sereno come una Pasqua. Quattro anni dopo quello all’ernia, anzi, alle ernie, anche stavolta l’intervento (una lobectomia superiore sinistro) riuscì. Al risveglio sentivo dolore, una cosa normalissima, per cui chiamarono il fisioterapista, che mi fece fare degli appositi esercizi. Non c’era ancora quella macchinetta che inietta farmaci antidolorifici nella zona operata.

L’avrei vista due anni dopo su mio fratello. Era più vecchio di cinque anni, mio fratello. Lavoravamo assieme, facevamo la stessa vita. Stesso male, stesso letto d’ospedale, stessi medici. Lui però non ce l’ha fatta. Si era messo a tossire sangue misto a catarro: emoftoe, uno dei sintomi associati a questa malattia. Mio malgrado mi ero fatto una cultura di base in materia. Intuii che si trattava di un campanello d’allarme, e accompagnai mio fratello all’ospedale Carle, a Cuneo. In un primo momento i medici pensarono a una pleurite. Poi la trafila di broncoscopia, radiografia eccetera appurò che anche Mario era stato aggredito dal Big Killer. La macchia era più grande della mia e al polmone destro. In sala operatoria lo richiusero subito dopo averlo aperto: era pieno di metastasi. Tornò a casa convinto che l’avessero operato, tanto più che stava un po’ meglio. Non gli abbiamo mai detto la verità: sarebbe stato peggio, si sarebbe demoralizzato. Nessuno conosceva mio fratello bene quanto me. Passati due mesi, le sue condizioni si aggravarono nuovamente: si consumava a vista d’occhio, al punto da non riuscire a fare più le scale. Avevano provato con la chemioterapia per allungargli la vita e alleviargli il dolore, ma lui non la sopportava. Soffriva e non capiva, e un giorno mi domandò: “Perché tu una volta tornato a casa sei andato sempre meglio, e io invece vado sempre più giù?” “Ognuno reagisce a modo suo”, gli risposi. Che altro avrei potuto dirgli? Dal giorno della finta operazione, tirò avanti 7 mesi e 20 giorni.

Due grossi fumatori, io e mio fratello. “Dui asu”, come si dice in piemontese, due asini. Cominciai a 10-11 anni per i soliti motivi: il fascino del proibito, cioè il piacere di disobbedire ai genitori… il sentirsi più grandi… A 25 anni fumavo tranquillamente 40 sigarette al giorno, di quelle senza filtro: più erano forti e più mi piacevano. Non compravo mai un solo pacchetto per volta: almeno due, o addirittura la stecca! A mia moglie dava molto fastidio che fumassi: lei aveva fumato poco e occasionalmente in gioventù. Nascondevo i pacchetti nel portaradio della macchina: ce l’avevo, l’autoradio, ma l’avevo tolta per far posto alla scorta e perché non ho l’abitudine di ascoltarla. Durante il ricovero in ospedale, nel comodino del mio posto letto tenevo 20 pacchetti di sigarette! Il dottor Quaranta mi scoprì, e mi fece una romanzina tale che mi ronza ancora adesso nella testa. Smisi di fumare in quel preciso instante, di colpo: non per convinzione, ma per la classica fifa. Ordinai a mia moglie di regalare quei pacchetti ad amici e vicini di casa, fuorché a mio fratello.

Dopo essere stato dimesso, cominciai i controlli all’ospedale Carle dai dottori Buccheri e Ferrigno: prima ogni due mesi, poi ogni quattro, poi ogni sei. Oggi è annuale, un appuntamento di routine, segno che sono ormai fuori pericolo.

Ah, ma la mia esperienza in fatto di tumori ebbe un’appendice. Due anni dopo quello del polmone, nel 1995 mi fu diagnosticato un carcinoma di tipo epiteliale alla base della lingua. L’avvisaglia fu un persistente dolore all’orecchio destro e alla nuca. Guarii completamente con due mesi di radioterapia. La sopportavo bene: l’unico effetto collaterale è che sono rimasto senza saliva, e questo mi costringe a bere frequentemente, e ad accompagnare i bocconi di pane con sorsi d’acqua. Ma è un fastidio sopportabilissimo. Non bevo vino per colpa dell’ulcera, mi verrebbe da vomitare. In compenso mi concedo un “pastis” come aperitivo, ogni tanto (e all’insaputa di mia moglie). Oggi mi tengo impegnato: siccome il lavoro di una vita non si dimentica, ho ristrutturato una casa ereditata da un cugino morto per un tumore della trachea, e l’ho affittata. Ho ereditato anche un pezzo di castagneto, ma ci vado solo quando ne ho voglia. Al mattino faccio sempre qualche lavoretto, il pomeriggio gioco a carte (scopa) con i parenti. Però le gare non le faccio: si finisce sempre col discutere, e io sono un tipo nervoso (oltre che testardo e impaziente). Guardo la tv a pranzo e la sera: mi piacciono la trasmissione “Forum” e i film. Amo fare lunghe passeggiate con mia moglie e la nostra cagnetta Didi. Diversamente da mia moglie, non leggo i giornali e tantomeno i libri. La mia sola lettura, da quando avevo 18 anni, è TEX WILLER, il più famoso fumetto italiano. Il mio motto è di godersi il presente ed essere ottimista: il cancro mi ha portato via un fratello, uno zio e un cugino, ma non la serenità, non la voglia di vivere. Il mio consiglio è di fare sempre tutti i controlli necessari. E di non cominciare nemmeno a fumare, naturalmente. Soprattutto i giovani, diano retta a uno che per tanti, troppi anni si è comportato come “un asu”.

Il commento del dott. Buccheri

Abbiamo rivisto il Sig. Dutto il 16/11/05, l’ultima volta, e lo rivedremo ancora fra qualche settimana. Tutto continua ad andar bene (ottime condizioni cliniche generali, assenza di disturbi soggettivi, esami ematochimici e marcatori tumorali sempre nella norma, radiografia toracica a posto…). E non potrebbe essere che così: da un piccolo carcinoma squamoso (stadio patologico: T1aN0), scoperto per caso, si DEVE guarire. Come la storia del Sig. Dutto, da questo punto di vista poco interessante, conferma. Quello che interessa, in questo caso, sono altre considerazioni e precisamente:
1. la predisposizione a sviluppare il cancro del polmone è familiare (i componenti di certe famiglie – a parità di altri fattori di rischio – hanno un rischio di ammalarsi di cancro del polmone molto maggiore dei membri di altre famiglie);
2. esiste un fenomeno chiamato “cancerizzazione di campo”. Con tale espressione si intende la possibilità di avere più cancri, a partenza differente, ma insorgenti nella stessa area (“campo”). Ad esempio, nelle vie respiratorie è facile l’associazione di un cancro del polmone e di uno della laringe o della base della lingua (come è stato il caso del Sig. Dutto). Cosa ci insegna il Sig. Dutto? Che fumare aumenta di molto il rischio di cancro del polmone, ma questo rischio, già di per sé alto, va almeno raddoppiato se si appartiene ad una famiglia con diversi altri casi di cancro. E che, chi ha già avuto un cancro del polmone ed è stato curato con successo, deve continuare a sottoporsi a controlli per molto tempo perché può avere una ricaduta del suo male, certo, ma può anche avere un nuovo tumore… “di campo”.

 

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