Di Vita Davide

Di Vita Davide

Di Vita Davide – Saper accompagnare la fortuna

Sono originario del Molise, classe 1945. Prima di andare in pensione avevo sempre fatto il falegname: dall’età di 11 anni, perché al mio paese non c’erano le scuole medie. Tavoli, sedie, mobili, casse da morto perfino: di tutto si faceva. Però non c’erano prospettive, ed io non ero disposto ad essere sotto pagato, e tantomeno a starmene con le mani in mano. Così a 15 anni emigrai in Lombardia, con un amico. A 16 raggiunsi un cugino a Saluzzo, in Piemonte, dove vivo tuttora. Due o tre anni dopo feci venire su mia madre e la mia sorella più giovane, che mantenni agli studi.

Amavo il mestiere del falegname: è un lavoro appassionante, vario, anche difficile e faticoso, dove c’è sempre qualcosa da imparare, una malizia… E poi, a opera finita, l’oggetto lì, tangibile e utile, si prova un senso di soddisfazione che ti convince che ne è valsa la pena, e ti proietta con entusiasmo verso un’altra cosa da realizzare. Di un falegname, se era bravo, lo si dice solo quando è defunto, e almeno una volta nella vita deve essersi fatto male. Io mi tolsi il fastidio abbastanza presto, da ragazzo, infortunandomi a un dito.

Non sono mai stato un accanito fumatore: 7-8 sigarette al giorno. Ma solo sul lavoro, mentre a casa e nel tempo libero nemmeno una. Strano vero? Tuttavia, essendo il biliardo (soprattutto) e le carte i miei passatempi preferiti, avevo sempre frequentato locali notoriamente avvolti da una spessa coltre di fumo. Che gli altri fumassero non mi dava fastidio, né mi faceva cadere in tentazione. Strano anche questo, vero?

Sebbene 7-8 cicche siano poche, intorno ai trent’anni dissi basta. Ogni tanto mi prendeva una fitta molto forte allo stomaco, e alla lunga ho dato la colpa alla “bionda”. La mollai di brutto, senza ripensamenti, senza l’aiuto di cerotti, braccialetti e diavolerie varie. Sono un tipo testardo: se mi metto in testa una cosa, vado fino in fondo. In questo ho preso da mia madre.

Le fitte passarono, in “(s)compenso” col tempo mi era venuta una tosse cronica. La causa poteva essere stata una bronchite mal curata: al lavoro ero un presenzialista, anche con 39° di febbre. Oppure la colpa poteva essere della polvere: a quel tempo nel settore del legno se ne mangiava tantissimo, non c’erano ancora gli aspiratori. Questa tosse persistente mi aveva reso la vita difficile, e così andai dal medico della mutua. Dapprima mi prescrisse delle gocce. Poi, siccome l’effetto era uguale a zero, mi indirizzò all’ospedale Santissima Annunziata di Savigliano per una radiografia toracica.

Il radiologo notò subito qualcosa di sospetto, una macchia, e per telefono mi disse di ritornare nel pomeriggio per un’altra radiografia, circoscritta al polmone destro. Era il 27 dicembre 1994. Il giorno seguente portai la seconda lastra e una busta chiusa al mio medico di famiglia e lui, dopo averle guardate, mi ordinò (sì, ordinò) di andare all’ospedale Carle di Cuneo per una visita specialistica. Mi venne la strizza: a grandi linee sapevo che genere di malattie si curano al Carle. Presentivo che si trattasse di qualcosa di brutto. Nell’ignoranza e nell’incertezza vengono sempre in mente tante cose.

Una volta visionata la documentazione, il dottor Buccheri non ebbe dubbi: cancro del polmone. Brutta parola, tra quelle che più fanno paura. Però tanto vale sapere subito come stanno veramente le cose. Poi i dottori Buccheri e Ferrigno mi accompagnarono al Santa Croce di Cuneo da un chirurgo, il dottor Vassallo. Questi mi fece un discorso così schietto che ancora oggi me lo ricordo quasi alla lettera: “Noi potremmo anche prelevare con un ago un campione di tessuto per analizzarlo, ma correremmo il rischio di ferire la parte sana. Per cui delle due l’una: o lei si fa operare, o lascia tutto com’è. Sappia che nella seconda ipotesi solo a qualcuno è andata bene. La decisione spetta esclusivamente a lei”. Mi consultai con le mie sorelle, e ciascuna aveva un’opinione diversa. Alla fine decisi da solo: per l’intervento. Fossi andato in cerca di altri pareri medici, sarei andato in tilt. E poi sia Vassallo che Buccheri e Ferrigno mi avevano rassicurato che le probabilità di successo sarebbero state alte, anche perché non c’erano metastasi. Mi fidai. Il rapporto coi medici deve basarsi sulla fiducia.

Il 30 gennaio 1995 venni ricoverato. Il 6 febbraio finii sotto i ferri. Malgrado i pronostici fossero ottimistici, in quella settimana non ero affatto tranquillo: in una tale situazione, sfido chiunque ad esserlo. La macchia, grossa 2,5 centimetri, era stata classificata come adenocarcinoma. Subii un intervento di lobectomia, cioè di asportazione radicale del lobo superiore destro. Per compierlo, dovettero farmi un taglio, anzi, un vero e proprio squarcio nella schiena e, credo, rompermi qualche costola. Al risveglio avvertii un dolore atroce che ce ne mise di tempo per sparire. Mi tennero in osservazione una ventina di giorni, poi mi dimisero. Nelle settimane seguenti ero debole, faticavo a camminare, mi mancava il fiato. Ed ero dimagrito tantissimo, quasi da non riconoscermi: gli amici venuti a farmi visita erano rimasti impressionati.

Nonostante il dolore non fosse completamente passato e non avessi quindi recuperato appieno le forze, già a maggio di quell’anno ripresi a lavorare. I dottori Buccheri e Ferrigno mi avevano autorizzato a farlo, se me la fossi sentita. E io me la sentivo. Sempre che uno ne abbia la facoltà, è importante fare qualcosa, avere la mente e le mani impegnate. A starsene a casa ci si chiude, ci si lascia andare. Si finisce col sentirsi sempre un po’ malati. Il primo giorno il titolare mi convocò in ufficio e mi disse: “Signor Di Vita, faccia quello che si sente. Quando è stanco si fermi pure, poi riprende”. Apprezzai molto quelle parole, le parole di una persona intelligente e sensibile. Ma grazie al cielo non avevo necessità di fermarmi sovente: pausa caffè e ripartivo, perché sopportavo il dolore. E in pochi mesi tornai anche ai lavori più pesanti, tipo consegnare un mobile a spalle su per le scale.

A farmi finire nel mirino del “Big Killer” può essere stato il fumo passivo nelle sale da biliardo. Oppure qualche sostanza sul lavoro: penso in particolare alla noce di mansonia, un legno importato dall’Africa, a basso costo e facile da lavorare. La sua polvere faceva starnutire, tossire, dava prurito, perfino colare e sanguinare il naso. Si sapeva che questo legno era velenoso, oggi è vietato. Io propendo di più per il fumo passivo, ma non ho la controprova.

Per cinque anni i controlli furono semestrali, oggi sono annuali. Sempre tutto in regola, ma ad esser sincero, facendo anticamera un po’ di strizza mi viene sempre. Purtroppo devo convivere con questa tosse, forse di origine nervosa, non so, che si manifesta quando mi agito. I medici con cui ho avuto a che fare mi hanno trattato bene: mi hanno trattato in quanto Davide Di Vita, non come un numero. All’ospedale ancora si ricordano che facevo il falegname: è una cosa che mi fa molto piacere, perchè il malato è anzitutto una persona con una sua storia, non una cavia.

Oggi che sono in pensione ogni tanto faccio qualche viaggio. Prediligo i posti esotici, in particolare l’oriente. Il mio viaggio nella malattia è stato breve e a lieto fine, senza il calvario della chemioterapia o della radioterapia. Mi ritengo fortunato. Ma la fortuna, ne sono convinto, bisogna anche saperla accompagnare.

Il commento del dott. Buccheri

Un soggetto giovane e sano, un adenocarcinoma di 2.5 cm che nasce in mezzo al parenchima polmonare, nessuna metastasi a distanza (né linfatica ai linfonodi bronchiali e del mediastino, né ematogena a distanza), un intervento di asportazione di un lobo polmonare con il tumore al suo interno…e il gioco è fatto! Undici anni di sopravvivenza e chissà quanti altri ancora! Non è poi così difficile guarire, se le condizioni in cui ci si presenta allo specialista sono quelle del Sig. Di Vita!… Purtroppo, la realtà è che sono pochi (diciamo che si tratta di una percentuale compresa fra il 10 ed il 20%, ma certamente più vicina al 10%) quelli che si presentano all’osservazione nelle condizioni del Sig. Di Vita. Perché? Perché a volte si è davvero sfortunati (il tumore nasce in una zona assai delicata: ad esempio, nasce vicino al cuore e sin dall’inizio comincia ad interessare gli organi vitali). Altre volte si è un po’ superficiali (anche perché poco informati) e si trascurano per settimane, a volte per mesi, i sintomi che sono premonitori del male in arrivo. Altre volte ancora si incappa in medici di famiglia che non danno il dovuto risalto ai sintomi che gli vengono riferiti. Ancora una volta il messaggio è: PREVENZIONE! Informazione ed educazione del pubblico, aggiornamento ed all’ertamento dei medici di famiglia. Almeno 2/3 delle diagnosi tardive non sono dovute alla sfortuna!

 

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