Adattamento alla malattia

Adattamento alla malattia

Buongiorno dottoressa.
Sono malato di adenocarcinoma polmonare in stadio IV e sto facendo immunoterapia.
Mi sono iscritto al gruppo della comunità di supporto di ALCASE Italia, perché sentivo il bisogno di trovare qualcuno che fosse come me, che provasse quell’angoscia soffocante, di cui non riesco a liberarmi, anche perché non mi sento di parlare in famiglia dove tutti mi guardano con occhi colmi di pietà, o almeno è quello che percepisco io.
Mi sono isolato anche dagli amici, non esco di casa se non per andare a fare terapia. In casa non mi interessa neppure ascoltare le notizie alla TV, né ce la faccio più a leggere. All’inizio passavo il mio tempo immerso come in un tormento da cui non sapevo come uscire. Poi ho cominciato a guardare sui social ed ho trovato ALCASE.
Quando ho trovato il gruppo chiuso, ho avuto un momento di gioia perché ho pensato che lì avrei trovato altri malati come me con le mie stesse difficoltà.
Leggo tutto ciò che viene scritto, a volte mi ritrovo nelle parole di altri, ma non riesco a interagire con loro. Vorrei scrivere anche io, vorrei esporre le mie paure perché vedo che chi lo fa riceve tanto incoraggiamento dagli altri, ma mi sento come bloccato e non scrivo mai.
Adattamento alla malattiaQuando fanno le stanze, che sono incontri in diretta e ci sarebbe la possibilità di intervenire , rimango sospeso su quella mia nuvola che ora comincia a soffocarmi.
Volevo chiederle perché, secondo lei, non ce la faccio a parlare con gli altri? Eppure sono tutti come me… Ho capito che molti hanno stretto anche amicizia tra loro. Perché ho questa difficoltà a parlare della malattia anche nel gruppo?
La ringrazio se potrà indicarmi come superare questa mia riservatezza con gli altri malati, perché mi rendo conto che, se fossi attivo nel gruppo, tanta angoscia che mi porto dietro forse si dissolverebbe in gran parte.

Nicola

 

Buongiorno Nicola.

In generale, è spesso difficile parlare di come stiamo e di quello che stiamo vivendo, specialmente quando non stiamo bene. Ha senso pensare che la sua paura di parlare nel gruppo, esprima qualcosa di lei con cui è difficile fare i conti, qualcosa che ha a che fare con alcune sue resistenze ma anche con l’adattamento alla sua malattia. Penso che potremmo considerarla anche come una forma di ansia che la porta in qualche modo a evitare di esporsi, pur riuscendo a partecipare stando in ascolto.
Dicevamo che parlare delle nostre fatiche, e anche di chi siamo, spesso può essere difficile: nella malattia i pazienti raccontano che lo è anche molto di più, perché spesso non ci si sente capiti. Gli “altri” non capiscono, spesso anche in famiglia ci si sente così; purtroppo anche i familiari sono spiazzati e così si possono innescare meccanismi disfunzionali di protezione dell’altro, che creano solo ulteriori muri e solitudine.
Ci vogliono molto coraggio e tante energie; le energie che finora ha speso isolandosi e che spende a stare richiuso e a controllare le sue paure sono tante, e immagino che le facciano provare molta stanchezza rispetto a questo “stare”.
L’adattamento alla malattia però è un “processo”, e se lei per la prima fase è stato più bloccato, adesso mi sembra che si stia muovendo in un modo nuovo, e questa è una cosa preziosa… si è ascoltato, ha capito come e cosa potrebbe aiutarla. Ha avuto molto coraggio a scrivere questa sua mail e a descriversi, questo è un ottimo punto di partenza.
È quello che potrebbe fare con gli altri ammalati, anche partendo da meno informazioni rispetto a quanto scritto qui.
Ha potuto vedere che è un ambiente protetto, allora un obiettivo successivo potrebbe essere domandarsi “cosa serve a Nicola per fare il primo passo”?
C’è una citazione della poetessa Erin Hanson che recita: “C’è la libertà che ti aspetta, nella brezza del cielo. E tu chiedi: “Cosa succede se cado?” “Oh mia cara, cosa succede se voli?”». E forse, Nicola, oltre a interrogarsi e rimanere bloccato sul “cosa potrebbe succedere di doloroso o difficile se incomincio a parlare”, potrebbe iniziare anche a riflettere su “cosa potrei portarmi a casa?” e anche “cosa potrei dare io agli altri?”, per coltivare anche quella sua parte interiore, sentirsi anche lei utile per gli altri, dare il suo contributo.
Lei ha fatto già un grande passo per se stesso, quello di ascoltarsi, di capire cosa le potrebbe fare bene e lo ha già messo per iscritto rivelandosi qui, ha già sperimentato e dimostrato molto coraggio, davvero.
Le auguro di riuscire a fare questo ulteriore passo.

Un caro saluto,

Dott.ssa Federica Ruffilli
Dirigente Psicologo Psicoterapeuta
Struttura Semplice di Psico-Oncologia
Istituto Scientifico Romagnolo per lo Studio e la Cura dei Tumori
Meldola (Forlì Cesena)

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